In questo periodo sono decisamente tornato ad occuparmi di tecnologie. Che, per uno che, con difficoltà, risponde al telefono, ai più sembra alquanto bizzarro. In ogni caso, devo raccogliere le idee per il “solito” paper che, di carta, ha solo il nome.
Mi preparo a correre con la precisa volontà di tornare a casa con qualcosa che valga l’investimento. Alla peggio, avrò messo “da parte” qualche chilometro, a beneficio del giropancia che ogni giorno mi guarda perplesso, sicuro di sopravvivere a qualsiasi impeto atletico.
Il punto di partenza è costituito dal fatto che appare ormai comune parlare di “impronta” ecologica dei prodotti, intendendosi per tale tutta la complessa procedura necessaria ad individuare quale sia il costo “sociale” della produzione. E, fin qui, nulla di nuovo. Non serviva Greta per spiegarci la questione.
Ai nostri giorni, tuttavia, occorre interrogarci sulle conseguenze dell’economia digitale, cioè del progressivo spostamento degli acquisti su dinamiche telematiche, incrementate dalle funzionalità, in tal senso, di smartphone e tecnologie per i pagamenti. Se è così – e non pare potersi pensare seriamente diversamente -, accanto al costo “ecologico” dei prodotti/servizi via web, a mio avviso occorre prestare attenzione anche al dato “informativo”.
Se comprate uno smartphone e non “consegnate” una casella di posta elettronica, il telefonino non funziona. Lo stesso dicasi per il personal computer che è più social che personal.
L’eccessiva richiesta di dati personali (anche di quelli non realmente necessari) finisce per diventare una “impronta” rispetto al costo ed all’accesso ai prodotti/servizi. Sembra che occorra aprire al più presto una riflessione su quanto la disponibilità di queste informazioni non solo non vengano “retribuite” al proprietario ma, al contrario, consentano di conseguire un valore aggiunto in termini di business intelligence, ossia, in altre parole, un vantaggio competitivo rispetto ai concorrenti.
A prima vista, le internet major ci “fanno un favore” nel renderci la vita più semplice, per altro verso vogliono sapere ”troppo” e non certo per conferirci solo vantaggi. Non appena avremo reso disponibile ogni dato, secondo la notoria prassi del monopolista, vedrete che ogni cosa ci sarà fatta pagare. Allora non sarà più possibile tornare indietro.
Quindi serve sicuramente un correttivo. Se le informazioni concorrono alla ‘costruzione’ del servizio, la loro quota-parte in termini di materia “prima” non solo deve riverberarsi, in qualche misura, sul costo del servizio ma deve essere opportunamente “evidenziata”.
Così facendo, l’interessato – che, peraltro, è il “titolare” dei dati di cui parliamo – potrà essere posto nelle condizioni di scegliere l’alternativa che, in termini di rapporto costo/opportunità, sia maggiormente rispondente alla propria “filosofia di vita”.
Questo determinerà una competizione tra le imprese in cui si potrà comprendere quanto “pesano” i nostri dati. Alla fine l’ha capito anche la Apple che, nelle ultime pubblicità fa comprendere (solo ora?), il “peso” della privacy.
Verso un’ecologia dell’informazione personale?