La soluzione del problema

A cosa pensate quando correte? Beh, dipende…

La salomonica risposta appare ecumenica e scontata. In effetti, dipende dal momento in cui andate a correre. Il contesto “esterno” è però solo parte dell’equazione. Va infatti aggiunta anche la parte “interna”, cioè le nostre condizioni – diciamo – spirituali.

La mattina presto, ad esempio, a seconda del clima (e di come siamo abbigliati), induce a pensieri crepuscolari, in quel “magico” momento che segna il passaggio dall’ombra alla luce. Siamo animali “solari” e la luce contribuisce al nostro benessere. Tutto si vede in modo migliore possiamo salutare la nuova giornata con propositi positivi.

Già “sospendere” ogni giudizio (cosa estremamente difficile, tanto che è uno degli esercizi zen per esperti) e godersi l’attimo, ci predispone al benessere. Peccato, però, che appena molliamo la presa, la mente vorticosa ci assedia di questioni, piccole o grandi. Dal pensiero alla prossima gara, alle incombenze quotidiane , a … Un gorgo di pensieri che si giustappongono, si intersecano, si innestano creando, a ogni passo, un puzzle diverso che non facciamo in tempo neppure ad iniziare che, messe poche tessere, sfuma nel successivo; e si ricomincia.

La corsa della sera, al contrario, è quella di “defaticamento”. Aiuta a chiudere la giornata faticando quel giusto che serve a scaricare a terra tutte le tossine accumulate. Le incazzature, le contrarietà, piccole o grandi, vengono sublimate nel sudore e consegnate alla storia (personale).

La “soluzione del problema” è invece il caso che riguarda me (ed altri come me). Siamo quelli che, per lavoro o per diletto, “ragionano” su problemi da risolvere. Il problema, per essere tale, deve creare qualche difficoltà (altrimenti non lo sarebbe) e, soprattutto, non avere una “risposta” unica. A partire dalla definizione del problema stesso, è la molteplicità delle sue articolazioni e delle possibili soluzioni che ci cruccia. Ad esempio, devo motivare l’assenza delle giornate/uomo prospettate in sede di approvazione del progetto. Come si fa a rendicontarle se mancano del tutto? Urge una “spiegazione” credibile – e sopravvenuta – che faccia fare bella figura e non renda palese che, sin dall’inizio, quelle declamate giornate non esistevano affatto.

Gli altri casi, almeno per me, riguardano i saggi (esposizioni di altro tipo, etc.) che mi chiedono. Dato che vengo pagato, devo prospettare qualcosa che valga la pena di essere ascoltata e che indichi una “via”. Provocare, nel lettore o nell’uditorio, la sensazione del: “Come mai non ci avevo pensato?” è una sfida probante. Sarebbe bello, infatti, avere – sin da subito – le idee chiare e qualcosa di interessante da costruire.

Vi confesso, al contrario, che manca sempre qualcosa: il tempo a disposizione, la conoscenza dell’oggetto del “contendere”, la voglia di affrontarlo, qualche soluzione interessante da proporre, etc. Una parte degli ingredienti sono parte integrante del “mestiere”; il resto, a me, arriva correndo.

Inizio la mia corsetta con l’obiettivo di “scaricare” (come sopra) senza dover finalizzare nulla di più.

Nel mentre, lo sforzo di un fisico che viaggia, più o meno, in automatico abbandona le scorie e fa sorgere alla mente un quadro, molto più brillante, di quello che nel substrato ci “preoccupa”.

La concatenazione dei pensieri, ad ogni passo, affina le possibilità, disegna quelle mappe in cui, ad ogni successivo passaggio, individuano i confini, i colori descrivono le diverse funzioni, le relazioni prendono forma. Dalla bidimensionalità, sorge la terza dimensione (e spesso anche una quarta, quella temporale): il “problema” è divenuto un solido. Un costrutto, con le stesse caratteristiche di un materiale che si può fondere, plasmare, sagomare e poi colorare e confezionare. Ora può anche essere presentato perché non è più un oggetto astratto ma si può “toccare” e, quindi, svilupparne la produzione.

La soluzione del problema. Per me è un passaggio di stato.

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