Parkrun (a proposito di privacy)

Qualche tempo fa ho deciso di iscrivermi al Parkrun. Per chi non lo sa, si tratta di un modo per valorizzare alcuni contesti podistici (nel caso di specie, il Parco della Caffarella), in cui ritrovarsi a correre come se si trattasse di una sorta di club che prescinde dalla nostra “ordinaria” appartenenza ad una associazione sportiva.

In sostanza ci si iscrive sul sito – laddove tutte le spiegazioni qui omesse – e poi ci si incontra, di solito il sabato mattina, per correre 5 chilometri in compagnia. All’iscrizione segue la consegna di un codice a barre che permette la rilevazione del tempo e, quindi, tutta una serie di statistiche e raffronti.

Ebbene, al momento dell’iscrizione ci si rende conto che – davvero – sono stati smarriti i confini di quanto si debba dire e di quanto sia invece necessario tacere. Oggi nell’infosfera siamo pronti a rinunciare del tutto a qualsiasi tutela, “in cambio” di quello che “sembra” risolverci (apparentemente in forma gratuita) piccoli o grandi complicazioni della nostra frenetica vita.

Lasciamo perdere che vogliano sapere il nome e cognome ed altri dati anagrafici ma, sul versante della privacy, vi è una disarmante incomprensione dei profili critici delle richieste. Se, per un verso, non è chiesto se uno sia in regola con le prescritte idoneità mediche (chiamiamole così), quando anche a scuola non si è ammessi all’ora di ginnastica, senza previo accertamento delle condizioni sanitarie, per l’altro, con la massima tranquillità, si chiedono addirittura di segnalare le proprie patologie.

L’intento appare lodevole. Mettiamo che si abbia una cardiopatia, uno la scrive sul sito, indica un numero telefonico di un buon samaritano (che, peraltro, non sa che diamo il suo numero non-si-sa-a-chi-e-dove), dopodiché, da qualche parte nel mondo, “qualcuno”, nell’ipotesi di prestarmi soccorso in futuro, sa sin d’ora qualche cosa che è protetta dalla legge come dato “particolare” (quali che si chiamavano dati personali “sensibili”). Ciò è comprovato dal fatto che Parkrun collabora con Strava che, candidamente, dichiara che il trattamento dei dati è svolto negli USA dove non si applica la disciplina europea.

Se esiste un livello di attenzione disciplinare rafforzato per queste informazioni una ragione ci sarà pure, ma è totalmente sconosciuta ai “gestori” di Parkrun. E, spero, che informazioni del genere non finiscano mai vendute a società assicuratrici, con evidenti effetti collaterali tutt’altro che piacevoli.

Faccio sempre resistenza a questa imperante forma di invadenza. L’unica volta che ho ceduto – senza arrivare a questi risvolti pericolosi – è stato con l’acquisto del mio nuovo Garmin, connesso – tramite Garmin Connect – al cloud. Ebbene, non c’è stato verso di “negoziare”: per farlo funzionare ho dovuto dire tutto o quasi, ma non si sono azzardati a chiedere dati sanitari. Peraltro, qualche mese dopo l’acquisto la Garmin è stata vittima di un attacco hacker con il saccheggio dei dati presenti nei loro server (e cloud).

Ne consegue la seguente istruzione minimale. Mentite sempre alle richieste in cui i benefici – ad una attenta analisi – nascondono insidie e questioni non più reversibili.

Vorrei solo correre, ma tanti sono interessati a conoscere i fatti miei e, tra l’altro, dicono che lo fanno “nel mio interesse”. C’è da crederci?

Se proprio vogliamo aiutare gli sportivi dei parchi, facciamo una colletta per acquistare un defibrillatore (e seguire un breve corso su come usarlo quando serve).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *