Il secolo della solitudine

Il mondo si sta progressivamente disgregando. E la causa pare essere – secondo una lettura recente – la solitudine che caratterizza, sempre più incisivamente, il “modello” delle nostre (non-)relazioni.

La solitudine non corrisponde soltanto ad uno stato d’animo soggettivo ma anche ad uno stato di esistenza collettivo. E’ quindi immanente alla “moderna” società-comunità, indipendentemente dalla situazione individuale che può essere, più o meno, contingente.

Non è questo il contesto idoneo per investigarne le cause, basti riflettere sulla sostanziale “separazione” (esclusione) che caratterizza una nostra vita, sostanzialmente priva di reali contatti con gli altri, secondo una matrice egoistica ed opportunistica. Una vita tendenzialmente “asettica”, come ha provato, senza dubbio, la reazione di “chiusura” (non soltanto fisica) rispetto al rischio pandemico. Il Covid-19 e le sue conseguenze sociali e psicologiche ha solo dimostrato che la socialità era già stata compromessa da tempo.

Esiste però un antidoto che si può somministrare sia a livello macro che micro. Sul livello macro, per esempio, occorre prendere atto che la logica capitalistica (ed egoistica), segnando profonde differenze nel tessuto sociale, non può funzionare, dato che pochi prosperano a danno di molti. Il motto dei marines – “Nessuno è lasciato indietro” – andrebbe seriamente applicato e non solo enunciato.

Sul livello prossimo all’individuo è necessario tornare a riunirsi, ad essere parte “attiva” della nostra comunità e dei luoghi in cui siamo presenti. Una di queste comunità è quella degli appassionati di podismo.

Con la pandemia molti non hanno rinnovato la propria iscrizione alla propria squadra. Forse hanno deciso di smettere di correre ma è più probabile che la scelta sia stata quella di “isolarsi” in una attività podistica “solitaria”.

Comprendo pienamente il risparmio dei costi ma questo ha degli effetti per nulla secondari. Si compromette una comunità, un contesto in cui le persone possono avere l’occasione di fare qualcosa assieme, di parlarsi e di instaurare delle relazioni. Se c’è un elemento di sicura positività è che, alle gare o, comunque, alle iniziative della propria squadra, puoi avere accanto a te tanto l’idraulico, quanto il chirurgo o il magistrato di cassazione. Persone che, forse, tranne l’idraulico, magari non incontri mai dal fruttivendolo e che, con la canotta e le scarpette, è proprio uguale a noi. Possiamo confrontarci, sfidarci, vivacizzare un punto di contatto, arricchendoci reciprocamente di un momento di “socialità” – del tutto priva di contropartita – che ci ricorda che siamo fatti per morire da soli e, prima di quel momento, per vivere insieme agli altri.

Ricostruire la comunità non è facile perché ciò non dipende solo da una volontà individuale a ciò indirizzata. Intanto, però, si prova a fare qualcosa per invertire la tendenza.

Iscriversi ad una squadra podistica, come visto, è qualcosa di più di un gruppo di persone che corrono le gare del campionato sociale. Si tratta di una comunità eterogenea in cui, se ci si riesce, le persone riescono a “vedersi” tra loro. Se ricordate, nel film Avatar, gli abitanti di Pandora si scambiano un “riconoscimento” (“Io ti vedo”) che significa qualcosa di più della mera accettazione, ed implica un profondo livello di empatia privo di “calcolo” e di condizionamenti.

Appare necessario ripartire e provare a vederci.

[Riferimenti culturali: N. Hertz, Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni, Milano, 2021; H. Riess, L. Neporent, Effetto empatia, Trento, 2020]

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