Dove siete finiti? (Appunti di economia podistica)

I dati sono preoccupanti. Si parla di un 25% in meno di tesseramenti rinnovati e di un calo di circa il 30% della partecipazione alle gare. In contemporanea, secondo la logica della Tempesta perfetta, gli sponsor latitano ed aumentano i costi per gli organizzatori.

Forse gli anni d’oro del podismo sono destinati a diventare un ricordo che si tramanderanno gli “anziani” di fronte al ristoro. Le abitudini sono cambiate repentinamente e bisogna capire come invertire – se è ancora possibile – la tendenza.

La prima strategia da bandire è quella del c.d. “recupero costi”, spalmando su un numero minore di podisti le entrate attese. Poniamo il caso che parliamo di un numero di 100 podisti per un simbolico 1 euro pro-capite. Data la flessione del 25%, un imbecille di media caratura caricherebbe su 75 podisti l’importo aggiuntivo di 1/25esimo per introitare la stessa cifra. Peccato che questa politica di cortissimo respiro finirebbe per aumentare le defezioni fino al punto in cui sarebbe del tutto antieconomico organizzare gare podistiche.

Cosa fare, allora?

Anzitutto per gare entrate nel tradizionale calendario podistico, le amministrazioni pubbliche (leggasi: il Comune) devono rendere disponibile il proprio supporto, per esempio, “concedendo” il servizio sanitario, o quello di “vigilanza”, quale contributo alle attività sportive. Qualcuno direbbe che così si sfavorisce il newcomer a vantaggio di chi è già sul mercato. Ed è proprio così. Si tratta di una barriera all’entrata che serve a misurare le velleità, per cui quando si immagina di organizzare una nuova gara, in tempi di vacche magrissime, si arriva più che preparati in “proprio”.

Se l’iniziativa, assunta senza aiuti pubblici, “funziona” poi entra nel circuito di quelle già esistenti e anche per quest’ultima ci sarebbe una fetta di torta, ovviamente commisurata all’aumentato numero di pretendenti. Giacché la torta è, più o meno, definita, e si tratta quindi di misurare il numero e la consistenza delle singole fette.

Poi servirebbe che la Fidal si mettesse una mano sulla coscienza e non nelle tasche altrui. La Run Card deve tornare ad essere del tutto temporanea. Il podista deve iscriversi ad una squadra podistica e non correre sotto “mentite spoglie”. Ma se uno non vuole iscriversi gli è inibita la corsa? No, se con le altre “sigle” (Uips, etc.), tolte le maratone, può partecipare ad un certo numero di gare. Invece, oggi, sono praticamente tutte gare “Fidal” impedendo questo potenziale circuito virtuoso.

Il sottoscritto, ad esempio, al tesseramento “Fidal” con la propria squadra, aveva aggiunto il tesseramento Uisp con gli Oranges (con i quali ho disputato molte gare) e, mi apprestavo ad un terzo tesseramento con i “bradipi”. Questa idea – lo riconosco – bislacca, si è scontrata con il fatto che ora con il tesseramento Uips potrei fare, al massimo, le gare di freccette.

Infine, un piccolo sforzo devono farlo anche gli organizzatori, tornando alla media “standard” di 1 euro/km per le 10K e di circa 0,80 euro/km per le Mezze.

Senza una revisione dell’Economia del podismo, si finirà per avere tesserati che disputano solo le maratone (che hanno ben altre dinamiche), con il crollo verticale della partecipazione alle gare cittadine su breve distanza. Cosa succederà? Che, alla fine, quando il solo tesseramento non sarà sufficiente all’equilibrio finanziario delle associazioni podistiche, si consolideranno solo quelle in grado di fare “grandi numeri” con la fine della stessa idea di sport “non professionista”. E’ questo quello che vogliamo?

Per invertire la tendenza ci vuole tempo: prima si parte e – se va bene – prima si taglia il traguardo.

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