Van Gogh (o della tristezza)

La Mostra di Van Gogh (Capolavori dal Kröller-Müller Museum) è, in questi giorni, a Palazzo Bonaparte di Roma. L’ho presa male.

Un uomo che ha vissuto col nome di un altro (il fratello premorto), senza trovare una collocazione, fuori di testa, senza avere la minima cognizione di quello che sarebbe stato il suo valore come artista.

Tutto si intreccia attorno a vicende personali. La perdita del sé, la non accettazione di quello che è ineluttabile. Una vita gemellato con un altro fratello.

Lettere a rotta di collo, in cui dare conto dei progressi in atto. Per dire qualcosa a qualcuno.

Dal buio, al colore. Nel mentre, dentro di lui, accade proprio l’opposto. Gli innumerevoli autoritratti ne offrono una evidente riprova, non tanto nella postura, né nello sguardo, quanto nello sfondo dove le pennellate vorticose testimoniano la tempesta in atto.

La luce si spegne, nel cervello un intrico come rami contorti, come alberi quasi morti (L’Ospedale di Saint-Remy, 1889; Radici di alberi, 1890).

Nel burrone, senza acqua, il genere umano (la donna) è solo una piccola comparsa (Il burrone dei Peyroulets, 1889). Per uno destinato a cambiare – in soli nove anni – la storia mondiale della pittura, non vendere neppure un quadro. Nessuno (tranne il fratello Theo e la di lui consorte) che comprenda il senso di questa trasformazione.

E morire – ancora non si sa esattamente come – senza poter presagire nulla di tutto ciò. La gente deve sapere – dice Theo – che “era un grande artista. Verrà un tempo in cui sarà riconosciuto e molti saranno addolorati per il fatto che ci sia stato strappato così presto”.

Una vita triste, in una frenesia di voler lasciare una traccia. Ma, per come l’ha vissuta, il tratto null’altro era che una impronta sulla sabbia, che la prima onda avrebbe portato via per sempre.

L’ho presa male. Ed ho ricordato un dettaglio. Per una mostra “100 pittori a Via Margutta” partecipai, tenero virgulto studente, con una riproduzione, a carboncino, del Vecchio disperato (“At Eternity’s Gate”, 1882), senza sapere affatto chi fosse l’Autore.

Oggi, tutta quella tristezza torna a galla; segno di tempi difficili.

 

E alla fine sparirò come se non fossi mai stato in questo mondo.

Un foglio di giornale gettato nel fuoco.

Una fiammata rapida e ben poca cenere che, un solo alito di vento, basta a disperdere.

Perfino il ricordo sbiadisce

come eravamo, cosa volevamo.

Nulla resterà fatto salvo, forse, quel momento in cui ci torna in mente qualche frammento,

quel nome proprio sulla punta della lingua, che non vuole saperne di emergere,

subito lasciato andare, per pensare ad altro.

[Riferimenti minimi: M. GOLDIN, Van Gogh. L’autobiografia mai scritta, Milano, 2020; Loving Vincent, diretto da D. Kobiela e H. Welchman, 2017; Doctor Who (stagione 5, episodio 10), Vincent e il Dottore, 2010 (https://www.youtube.com/watch?v=ubTJI_UphPk)] E’ mia la foto in apertura.

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