Venezia La prima maratona è sempre un evento speciale, in generale la maratona è una gara diversa da tutte le altre, oltre i 30 Km il fisico esaurisce le normali fonti di energie e non basta essere molto allenati o molto prestanti nelle altre distanze, ci vuole quel qualcosa in più che (a me che non nasco maratoneta) è molto difficile da acquisire anche avendo uno specifico allenamento: insomma, c’è da soffrire.
Il tempo in quei giorni a Venezia era bello, troppo bello per correre una distanza così lunga; sole, caldo e cielo terso. Perfetto per i turisti, meno per i 6000 runners pronti per la distanza. La mattina però, alle 6.30 sul bus che portava alla partenza, si avvertiva quel giusto freddo che faceva battere i denti, durato troppo poco. Nel Capannone che alla stregua di una girone dantesco ospitava gli atleti, verso le 8.30, le 9.00, si sentiva già l’aria diventare tiepida. File ai bagni chimici, gente che si oliava le gambe, altri che preparavano le cinture con acqua, Sali, cuffiette, eccetera.
Nell’aria si mescolavano dialetti di tutte le parti d’Italia e lingue straniere di varie parti del mondo, tra cui spiccava il giapponese. Nella panca cui avevo trovato posto, ero attorniato da un bel gruppetto di giapponesi/e, qualche parola in inglese scambiata, convenevoli, saluti e poi tutti alla partenza. Data la mia prima maratona, mi avevano sbattuto in coda: 5° gabbia, vedevo il punto della partenza piccolo e lontano.
Pronti, via!
Praticamente un muro umano mi fa fare a piccoli passi la distanza che mi separa dalla linea di partenza e, ancora dopo, solo lievi accenni di corsa. Alla fine riesco a corricchiare un po’, non voglio partire forte, il mio ultimo test sui 36 Km fatto a 5’20” mi induceva a ritmi più lesti, ma decido di non cascarci, anche perché la folla attorno a me non mi avrebbe consentito un ritmo cosi veloce. Primo Km 6’25”: “Oh, cacchio! E qui arrivo domani mattina!”
Accelero, comincio a zigzagare tra la folla, spingo qualcuno, altri non mi fanno strada, ne butto qualcuno nel canale e mi faccio largo, ecco, adesso sto correndo. Dopo un po’ raggiungo il pacemaker con il palloncino che recava il segno 5.
Mi accodo a loro, tranquillo. Poi mi rendo conto che 5 non voleva dire 5° Km ma 5 ore tempo finale. Accelero e mi getto all’inseguimento di altri pacemaker, però non devo esagerare lo so, devo trovare un ritmo di buon senso. Mi rilasso e mi guardo attorno, con il cielo sereno, tutta la bellezza del Brenta risplende, è uno spettacolo per gli occhi il canale si snoda sinuoso nella pianura veneta, attorno prati verde smeraldo e alberi che si inchinano verso il fiume, ogni tanto una dimora della antica nobiltà veneta ci viene incontro, bellezza nella bellezza. Attraversiamo deliziosi paesini da Stra a Dolo, da Dolo a Mira e poi Oriago. Ogni paese sembra un piccolo gioiello, tutto è curato, verrebbe voglia di fermarsi per bere un caffè nei piccoli bar che si affacciano dalle piazze dei paesi che attraversiamo.
La gente è tutta nelle strade. Uomini, donne e bambini ci sorridono e ci incitano. Ci divertiamo passando a dare il cinque sulle mani dei bambini che candidamente sporgono la manina sperando nel buffetto del runner di turno. Difficile resistere. Schiaffeggio delicatamente mani singole e anche gruppi di mani vicine tra loro. Un runner esagera, si ferma e abbraccia e bacia una ragazza che, ridendo, scappa via!
Fantastici anche i gruppi musicali, a ogni passaggio ti trasmettono carica vitale ed energia.
Intanto continua la mia corsa, recupero vari pacemaker, quello del 4h45′, poi quello del 4h30′, poi come il vento quello del 4h15′, mi sento bene, o per lo meno voglio sentirmi bene. Al 15 Km riprendo e supero il palloncino del 3h50′. Dentro di me una voce mi dice di rallentare o per lo meno di mettermi in quel gruppo. È molto difficile dare retta al buon senso ed è facile cedere alle illusioni, non riesco a rallentare nonostante senta già qualche piccolo avvertimento nelle gambe. Alla mezza passo in 1h48′ (mmm… ci metterei la firma per doppiare così, ma dentro di me sento che non sarà come vorrei): continuo a correre fino a vedere in lontananza il pallone del 3h45′, ma questa volta non lo raggiungo. Mi rendo conto della cazzate che ho fatto nei primi 20 Km e adesso cerco di metterci una toppa.
Il paesaggio non è più idilliaco, passiamo per fabbriche e capannoni, qualche residuo gruppo musicale cerca di animare la gara.
Nella testa brutti pensieri. Sto bevendo sali e prendendo bustine energetiche, fa anche caldo, troppo per un fine ottobre veneziano. Le gambe adesso sono stanche e ho mal di pancia e nausea (troppe bevande zuccherine?). Non resisto, al primo bagno chimico mi fiondo dentro e ci rimango 4-5 minuti. Uscendo un gruppo di pacemaker mi supera e io non riesco più a reggere quel ritmo. Il muro, come scritto in tutti i libri arriva al 30 Km, nel parco di San Giuliano. Le gambe non le sento più, due pezzi di marmo, sono costretto a camminare per ampi tratti, mi passano tutti; pacemaker, donne, anziani, nani del circo, tutti! Per fortuna non sono il solo a camminare. Magra consolazione.
Ma il momento peggiore di tutti arriva con il famoso ponte che collega la terraferma a Venezia: qui trascino i resti di quello che rimane delle mie gambe, come in un girone infernale vedo gente buttata per terra, altri che si appoggiano al guardrail, facce sconvolte come la mia, una persone per terra avvolta nel telo termico con attorno personale medico, però molti corrono e continuano a superarmi. Il ponte è lungo, forse 4 o 5 Km. Non finisce più, specialmente se non hai più nulla da dare. Alla fine arrivo a Venezia, si passa per vie esterne, non le più belle, ma sicuramente le più scorrevoli, qui riprendo a correre, non so dove ritrovo le forze ma corro di nuovo, più che correre mi sposto a ritmo costante senza camminare, correre è una parola grossa. Però non mi fermo, vado avanti, oltrepasso quei troppi maledetti ponti, arrivo nella piazza più bella del mondo che per me adesso è solo un’altra gimkana da superare, un lembo del mio cervello riesce ancora a percepire la bellezza dei luoghi in cui sto correndo, il resto è impegnato nella ricerca del traguardo. Ma dove lo hanno messo? Sapevo che era oltre piazza San Marco ma non così oltre.
Lo vedo, ecco la fine. Lo varco. Sono arrivato! ce l’ho fatta, comunque ce l’ho fatta. Il tempo 4h 17′ non era quello che volevo ma adesso è solo un particolare. Riesco ad alzare gli occhi e vedere un cielo magnifico, azzurro senza nuvole, non ho nemmeno freddo. Giro lo sguardo attorno a me, sono nel posto più bello del mondo e ci sono arrivato dopo 42 Km. Se si può essere felici anche nella sofferenza fisica, io in questo momento lo sono.
E i conti con la maratona sono rimandati al prossimo anno.